Federica Mazzoli

ANSIA: Conoscere il nemico per combatterlo

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ANSIA: Conoscere il nemico per combatterlo

Se vi dicessi che l’ansia non è da considerarsi necessariamente un nemico? Anzi. Una giusta dose  d’ansia  migliora la nostra modalità di fronteggiamento delle diverse situazioni perché permette di inquadrare, reclutare, attivare ed ottimizzare le risorse disponibili in vista di un obiettivo.

É il troppo che rovina i nostri piani.

Vediamo ora di partire dall’inizio; perché una sensazione che può essere altamente invalidante  per la nostra vita  occorre conoscerla per combatterla.

Etimologicamente il termine “ansia” deriva dal latino “anxius” che significa “inquieto”; rappresenta quindi uno stato di agitazione e di apprensione indotto dalla percezione di una minaccia futura.

É quindi un meccanismo fisiologico ed adattivo fondamentale per la nostra sopravvivenza.

Molto probabilmente se non avessimo provato ansia non ci sarebbero attualmente esseri umani sulla terra!

L’ansia, quando è sotto controllo, favorisce la centratura attentiva, induce uno stato di vigilanza che permette di valutare più variabili in funzione del risultato che vogliamo raggiungere; sveglia il nostro sistema preparandolo alla performance.

Uno stato passivo, demotivato induce un appiattimento delle risorse da dedicare; manca la spinta adrenalinergica (ma non solo) che permette di essere pronti per agire e dare il meglio.

 

Per illustrare questo andamento nei primi anni del ‘900 Yerkes e Donders (1908) hanno elaborato una curva che mette in relazione la qualità della performance ed il livello di ansia percepito dall’individuo. Ancora oggi questa “U rovesciata” rappresenta un’immagine estremamente esplicativa che evidenzia come uno stato di totale assenza d’ansia (equiparabile al sonno) rende la prestazione inefficiente ed inefficace. Il livello ottimale prestazionale si ottiene all’apice della curva in cui la reazione d’allarme verso la situazione è presente ma non invalidante; più l’ansia cresce più la performance finale diventa inefficace.

Quindi è l’aristotelico “giusto mezzo” l’obiettivo da perseguire.

Ricorriamo a degli esempi per entrare più a fondo nell’argomento. Quando un atleta si trova sui blocchi di partenza è necessario che mantenga un livello ottimale di attivazione psicofisiologica; il che significa un equilibrio tra processi fisiologici e cognitivi che possa indurre una prestazione efficace ed efficiente. Il battito cardiaco accelera, i muscoli vengono irrorati di sangue più velocemente, il pensiero è vigile e centrato, la motivazione interna è al massimo. Il corpo e la mente si preparano all’azione coadiuvati da uno stato d’ansia di fondo funzionale all’agito.

Ancora un esempio. Pensiamo di dover affrontare un colloquio di lavoro importante. Anche in questo caso potremmo sentire il cuore che scoppia nel petto, potrebbero sudarci le mani,  potremmo diventare paonazzi in volto; è il sistema ortosimpatico che ci prepara per affrontare una situazione a cui siamo esposti al giudizio altrui o per la quali magari dipendono decisioni importanti della nostra vita. Siamo focalizzati, pronti, attenti; l’ansia ci permette di essere in fase ON, centrati sull’obiettivo.

Come ormai risulterà chiaro se l’ansia raggiunge livelli elevati avremo il collasso del sistema così come se fossimo in uno stato di totale ed assoluto rilassamento.

 

L’ansia da fisiologica diventa un reale disturbo, la cui diagnosi può emetterla solo un professionista durante un percorso terapeutico (diffidate di chi etichetta i vostri sintomi senza colloqui preliminari e senza un esame attento ed approfondito della storia di vita), quando diventa eccessiva e persistente rispetto all’età di sviluppo. Il  Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali quinta edizione –DSM V (American Psychiatric Association, 2013) sottolinea come i sintomi ansiosi debbano perdurare per più di 6 mesi (dando in ogni caso al giudizio del clinico l’ultima parola; perché in fondo è il terapeuta che vede il paziente in studio e conosce la sua storia) ed essere invalidanti (cioè altamente disturbanti) per il funzionamento sociale, quotidiano e\o lavorativo della persona.

Pertanto un disturbo può definirsi tale solo se compromette la nostra vita e le aree importanti che la caratterizzano; non deve essere conseguente ad un periodo stressante e contingente (che magari dura da due\tre mesi) e non deve essere attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o di una condizione medica.

Come vedremo nei prossimi articoli i disturbi d’ansia possono essere diversi perché differenti sono gli eventi che inducono la sintomatologia ansiosa e differenti sono i pensieri che l’alimentano.

Precisiamo sin da subito che la presentazione dei diversi disturbi non permette un’ autodiagnosi. lo scopo è approfondire una conoscenza (di sé stessi e dell’ansia) non quello di fornire strumenti per classificarsi. La conoscenza genera consapevolezza e la consapevolezza genera possibilità di azione. E l’azione permette di prendere in mano la propria vita; decidere di intraprendere un percorso psicoterapeutico potrebbe essere una delle strade che capirete di dover percorrere. Fatevi guidare da voi stessi e regalatevi una possibilità.

 

L’ansia si riferisce a situazioni che determinano paura. É un’anticipazione di una minaccia non imminente ma futura. Tale minaccia però non è insita nell’evento in sé ma emerge solo nell’interazione tra noi e quell’evento; in altre parole è ciò che noi percepiamo come minaccioso nell’evento.

Questa differenza permette di centrare il nodo che contraddistingue l’ansia: la connotazione cognitiva che pervade ed alimenta l’intensità e lo stato emotivo stesso.

Cogliere che l’ansia è determinata da schemi cognitivi e quindi da pensieri, che dai suddetti schemi derivano, può iniziare ad accompagnarci nella strada del cambiamento. Perchè se i pensieri possono indurre stati ansiosi e se i pensieri possono essere osservati e modificati, allora lo stato ansioso può essere ridotto e noi possiamo, con il tempo ed il corretto lavoro su noi stessi, liberarcene.

Facciamo ancora un passo in avanti.

Se ci soffermiamo a riflettere potremmo notare che esistono differenze nel provare uno stato d’ansia transitorio di fronte ad un determinato evento e definirsi delle persone ansiose che  leggono ogni  situazione sotto questa lente d’ingrandimento. Questa distinzione in psicologia negli anni ‘70 ha trovato una classificazione diffusasi poi a livello internazionale: ansia di stato (state-anxiety) e ansia di tratto (trait-anxiety) (Spielberg et al. 1970).

L’ansia di tratto è una caratteristica relativamente stabile dell’individuo che induce risposte con un’elevata dose d’ansia alle situazioni percepite come minacciose. Tale caratteristica affonda le sue radici nella prima infanzia; è nella cura ricevuta dalle persone di riferimento, nell’amore, nel senso di sicurezza che si mettono i primi mattoncini per la costruzione della nostra personalità. L’ansia di tratto è quindi una modalità reattiva estrema che porta ad interpretare come potenzialmente difficili o pericolose le situazioni che quotidianamente viviamo. È il sentirsi ansiosi per la maggior parte del tempo senza un motivo preciso.

L’ansia di stato rappresenta invece una condizione transitoria indotta da uno stimolo esterno che spiega come ci sentiamo in un determinato momento di fronte ad un dato evento. Possiamo vivere anche brevi periodi di ansia nella nostra vita, i quali però non sono paragonabili, né per intensità né per durata, né per le conseguenti invalidanti, ad un individuo caratterizzato da una personalità di tipo ansioso.

Entrambi i costrutti possono essere altamente invalidanti sia a livello prestazionale che quotidiano. Sicuramente l’ansia di tratto è caratterizzata da un vissuto più complesso e da schemi più rigidi che inducono pensieri più pervasivi, invasivi e cristallizzati. Un conto infatti è avere “ansia di prendere un aereoplano o del sangue”, un conto avere ansia nell’uscire di casa. Gli agiti conseguenti a questi due vissuti sono sicuramente diversi ed è intuibile quanto il primo, pur potendo essere invalidante se ci impedisce di fare quella vacanza oltreoceano che magari sogniamo da tempo, potrebbe non limitare eccessivamente la nostra quotidianità. L’uso del condizionale è d’obbligo perché siamo esseri umani e non prototipi standard da incasellare entro una classificazione nosografica. Le categorie diagnostiche sono indispensabili e necessarie a noi clinici per utilizzare un linguaggio comune e per seguire linee guida fondamentali alla comprensione del disturbo; ma non rappresentano neanche per noi gabbie perché gli individui non vanno catalogati ma compresi e il giudizio clinico della persona e del contesto ha, nella diagnosi, voce in capitolo.

Quindi allontanatevi anche voi dalle prigioni dello stereotipo; cercate di conoscere voi stessi ed utilizzate questa guida per farvi accompagnare nelle caratteristiche di funzionamento dei diversi disturbi d’ansia; non cercate di incasellarvi ma provate ad osservarvi e poi comprendervi. Questa guida spero vi possa servire nel perseguire questo obiettivo.

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